Da piccola ero dipendente dal mare nella misura in cui il 1 luglio tornavo, prima a bordo della Jetta rossa poi della Passat grigia, all’hotel Leopardi di Rimini a riabbracciare Alessandro e Monia, e al bar del bagno 51 a mangiare il suo epico bombolone alla crema con lo zucchero che mi rimaneva beatamente appiccicato sulle dita che danzavano sulle note di qualche canzone del juke-box color pastello. Il 15 luglio era poi il turno di Marina di Grosseto con la nonna che sul dehor della Pensione Eldorado mi insegnava a giocare a carte come si doveva assieme alle sue amiche dell’estate Delfina e Italia.

Il mare in sé per me non era poi così importante; lo era invece tutto quello che includeva: i bambini, gli spaghetti al pomodoro alle 12 gustati dopo il richiamo della campanella, il profumo di cocco mescolato alla sabbia e alla salsedine, e i completini con le gale da sfoggiare alla sera.
Da adolescente “usavo” il periodo del mare per colorarmi di nero. Più mi abbronzavo, più ero bella, secondo me.
Poi mi è capitato che sei anni fa, per motivi di cuore, cominciai a dividere la mia vita tra un’isola del Mar Egeo e Milano. Tra la sacra e profana Tinos, quella virgola di terra nata da un gesto con l’avambraccio del Signore che una sera decise di rovesciare sul mare alcune briciole di pane avanzato, e la tanto bistrattata Milano.
Lì identificai una delle mie dipendenze, assieme alla cioccolata e allo sport.
Scoprì lassù, in inverno, in quella fredda stanza nel villaggio di Triantaros che mirava il mare, che a sua volta rimirava il cielo più o meno sempre turbato, che provavo malinconia, e che mi piaceva perché mi spingeva a guardare prima dentro di me e poi fuori, sul mare, alimentando il mio senso di impotenza nei suo confronti, e quindi di estremo rispetto. ?Cominciai a capire, anche se non razionalmente, perché le persone “di mare” non avrebbero mai voluto vivere lontano da esso: perché è come una calamita che sa trasformarsi in calamità, imprevedibile, gentile e spietata allo stesso tempo, generatrice di gioia e dolore. ?Il mare è un “artista”, e tutti noi siamo attratti da tipi del genere.
Uno di potere che si diletta ad organizzare convivi democratici e multirazziali, ma che quando ha i suoi cinque minuti lo devi solo lasciare stare.
È uno che pensa tanto lui, e che sa praticare una sorta di ipnosi.
Fu a Tinos che cominciai a capire perché le persone anziane stanno sulle panchine a fissare il mare per ore. Perché ti fa rimbalzare i pensieri, imbastendo un dialogo che è tutt’altro che muto. ?Fu lì che scoprì un “mezzo” grazie al quale sono diventata dipendente dal mare increspato, leggermente agitato, la tavola da surf, una navicella con la quale combatti, perdi, affondi, ma se poi riesci a dirigere nel modo giusto, si trasforma in un traghetto verso la gioia più pura.?Grazie al surf ho imparato ad ascoltare il mare anche senza dovergli per forza parlare, ad osservarlo in silenzio, a rispettarlo in maniera incondizionata, a carpirne le sue misteriose energie capaci di enfatizzare qualsiasi stato d’animo.
Un’arma a doppio taglio? No, uno specchio della realtà.
Grazie al surf ho imparato a convivere con la paura del mare mosso, del quale però non posso fare a meno, ad avere pazienza. E la mia pazienza dura felicemente da sei anni, nei quali ho imparato a stare sopra la tavola se le onde sono piccole, altrimenti no, ma non mi arrendo. Ho paura, ma non mi arrendo. Perché è più importante stare lì con lui, che su un’onda a “vincere” sempre.
Anche se quando vinci ti senti una dea. E vorresti scivolare su quell’onda fino al Marocco, all’India, al Polo Nord. Vorresti non finisse mai. Quel desiderio costante, quella speranza che sai che mai si realizzerà che tiene il fuoco acceso che manco l’acqua può spegnere.?Grazie a questo amore, non a quello greco che grazie a dio è finito, due volte l’anno vado “in pellegrinaggio” in Cantabria, dove piove sempre e l’oceano può fare davvero spavento. Dove tutto è così grande che quando arrivi lì, a tu per tu con lui, puoi solo piangere, colmarti di tutte quelle consapevolezze che non vuoi narrarti per poi espellerle rielaborate e salate. Come il mare appunto. ?Il mare ti racconta cose che gli altri non ti dicono, per questo tutto quello che ha a che fare con lui è qualcosa di buono.
Perché nei più disparati modi fa bene.
Se ve lo state chiedendo no, non abito al mare perché ho bisogno di desiderarlo per amarlo così tanto.
Lucia Del Pasqua
